Clerici...
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Re: Clerici...
No! Non è morto...
"C’è gente che magari sa scrivere, scrive e pubblica sui forum quello che scrive, ma non sa assolutamente leggere..."
(paoolino parafrasando Sciascia)
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Re: Clerici...
«Sei tu che lo devi scrivere, Frank». «Ma perché dovrei scrivere proprio io la biografia di Tilden?» mi rispose Frank Deford, il n. 1 dei giornalisti di sport americani.
«Perché non c’è. Non esiste biografia di quello che è stato il più grande tennista mondiale, di quello che ha scritto 18 libri che sono il Vangelo del Tennis, insomma di William Tatem Tilden detto Big Bill».
«Ma perché proprio io?».
«Perché ci tocca, Frank. Perché è accaduto che entriamo agli US Championship senza pagare il biglietto, e ci danno pure uno stipendio. E perché nessuno dei famosi biografi americani, da Harold Bloem a Gertrude Stein, se n’è mai occupato, di Big Bill».
«Ma perché non lo scrivi tu, Gianni, se sei così convinto che lo meriti?».
Risposi che avevo già dato. Avevo dedicato un anno della mia giovane vita a girare il mondo, dalla Grecia all’Arizona, da Parigi a Los Angeles, per scrivere una biografia di Suzanne Lenglen, l’alter ego femmina di Tilden, la più grande tennista del mondo, addirittura la prima professionista donna nel 1926, prima che Big Bill diventasse, nel 1931, il primo professionista uomo. Avevo passato un anno, scritto un libro che nessun editore italiano voleva, lo avevo riscritto in francese, pubblicato alfine da un giovane editore idealista e tennista che era fallito, mentre il libro usciva.
«E tu pensi che io voglia fare le stesso? Sei davvero matto. Ho un agente, io, che mi fa vendere i libri».
«Anch’io, Frank. Si chiama Erich Linder, è uno dei primi in Europa. E mi aveva giusto detto di non scriverlo, che non si sarebbe venduto».
«E allora?».
«Allora ci tocca, Frank. Ci sono certe cose, nella vita, che non possiamo evitar di fare».
Frank De Ford scosse la testa, e forse ancora la scuote, nel suo felice pensionamento. La biografia di Tilden non fu un fallimento come la mia prima biografia della Lenglen, poi riesumata da un agente tennista, Roberto Santachiara, e ripubblicata da due editor generosi, Cecilia Perucci e Mario Desiati, per Corbaccio e Fandango. La presunta follia si è addirittura ripetuta ora che due professionisti maniaci di tennis e studiosi, Luca Bottazzi e Carlo Rossi, hanno cercato di sintetizzare il pensiero di Tilden, non semplicemente la sua vita, in un volume dal titolo il Codice del Tennis (Guarini NEXT editore, 20 euro ).
Le tappe di una vita insolitamente non conformista vi sono raccontate, dalla nascita altoborghese, alla decimazione di una famiglia sfortunata, dal volontariato nella prima guerra mondiale, agli inizi di una carriera diversa, perché solitamente i neofiti seguono i maestri e non una loro personale teoria dei gesti e della filosofia — permettetemi — del gioco. I successi di Big Bill sono noti, dal primo Wimbledon del 1920, e dal primo Campionato americano dello stesso anno fino al ’26 senza stop, le 6 Davis di fila, e alla fine, superati i trentacinque anni, la resa parziale ai grandissimi Moschettieri francesi. Per scendere un po’ più in dettaglio, ricordo la vittoria del campione più razionale che istintivo a Wimbledon nel 1920, bissata l’anno seguente, e ribadita nel 1930, a 37 anni, 3 vittorie dunque su sole 4 partecipazioni. Avrebbe anche preso parte, Big Bill, a tre Roland Garros, torneo che data dal 1925, per perdervi due finali. Curiosamente simile questo Tilden, mi fa notare un amico, a Federer, anche lui allergico alla terra rossa, vincitore una sola volta a Parigi. Naturalmente, Big Bill non affrontò mai il viaggio di sei settimane per giocare in Australia, e quindi il suo record di 10 Slam non è comparabile ai 17 del presunto miglior tennista di tutti i tempi. Anche se un fiero dubbio sorge dal rapporto tra i match vinti e persi: 907 vittorie per l’americano su 969 partite in torneo, mentre lo svizzero ne ha perdute 228 su 1235, e cioè circa il 18%, almeno secondo il suo sindacato ATP.
(…) Tutto ciò è una parentesi che in realtà poco riguarda “Il codice del tennis”, sulla cui copertina figurano per altro due splendidi diritti sovrapposti di Tilden e di Federer. Ma ricordo di aver scritto io stesso quanto incomparabili siano reciprocamente Omero e Dante. Per ritornare al Codice, egualmente noti furono i dissidi di Big Bill con la Federazione Usa, accanita sino a squalificarlo perché, in un mondo aristocratico, non era lecito né il giornalismo a pagamento, né libri di short stories, né il documentario che Tilden, amico di Charlie Chaplin e di Greta Garbo, girò a Hollywood. I dissidi con lo establishment americano giunsero al punto che, dalla posizione di capitano e insieme di uomo di punta della squadra di Davis, Big Bill venne momentaneamente rimosso, e fu necessaria, nel 1928, la generosa richiesta dei Moschettieri, suoi avversari, perché l’ambasciatore americano a Parigi, Myron Herrick, intercedesse a favore del tennista, che riebbe il suo posto molto probabilmente grazie alla Casa Bianca. Tragicamente avversata fu poi la sua omosessualità, che lo condusse addirittura due volte in prigione, novello Oscar Wilde. Dall’analisi psicologica delle sue teorie, oltreché suggerimenti sulle caratteristiche psichiche degli avversari sotto forma di bersaglio, emerge incredibilmente una sorta di profezia, controllata negli ultimi anni sui dati di Federer Djokovic e Nadal, che indicava nel 40% dei punti giocati, i vincenti dei fenomeni. C’è soltanto da sperare che simile studio inatteso trovi attenzione in America, dove non si è andati oltre l’ottima biografia del mio amico Frank. Gli autori Bottazzi e Rossi hanno addirittura creato un sito che si rivolge alla federazione americana, colpevolmente distratta nel non battezzare almeno un campo di Flushing Meadows col nome di Tilden. E non posso finire questo seguito di accenni troppo personali chiedendomi se non mi sia sbagliato io stesso, a suo tempo, ad evitar di scrivere una biografia che nessuno voleva. Come quella della Lenglen.
«Perché non c’è. Non esiste biografia di quello che è stato il più grande tennista mondiale, di quello che ha scritto 18 libri che sono il Vangelo del Tennis, insomma di William Tatem Tilden detto Big Bill».
«Ma perché proprio io?».
«Perché ci tocca, Frank. Perché è accaduto che entriamo agli US Championship senza pagare il biglietto, e ci danno pure uno stipendio. E perché nessuno dei famosi biografi americani, da Harold Bloem a Gertrude Stein, se n’è mai occupato, di Big Bill».
«Ma perché non lo scrivi tu, Gianni, se sei così convinto che lo meriti?».
Risposi che avevo già dato. Avevo dedicato un anno della mia giovane vita a girare il mondo, dalla Grecia all’Arizona, da Parigi a Los Angeles, per scrivere una biografia di Suzanne Lenglen, l’alter ego femmina di Tilden, la più grande tennista del mondo, addirittura la prima professionista donna nel 1926, prima che Big Bill diventasse, nel 1931, il primo professionista uomo. Avevo passato un anno, scritto un libro che nessun editore italiano voleva, lo avevo riscritto in francese, pubblicato alfine da un giovane editore idealista e tennista che era fallito, mentre il libro usciva.
«E tu pensi che io voglia fare le stesso? Sei davvero matto. Ho un agente, io, che mi fa vendere i libri».
«Anch’io, Frank. Si chiama Erich Linder, è uno dei primi in Europa. E mi aveva giusto detto di non scriverlo, che non si sarebbe venduto».
«E allora?».
«Allora ci tocca, Frank. Ci sono certe cose, nella vita, che non possiamo evitar di fare».
Frank De Ford scosse la testa, e forse ancora la scuote, nel suo felice pensionamento. La biografia di Tilden non fu un fallimento come la mia prima biografia della Lenglen, poi riesumata da un agente tennista, Roberto Santachiara, e ripubblicata da due editor generosi, Cecilia Perucci e Mario Desiati, per Corbaccio e Fandango. La presunta follia si è addirittura ripetuta ora che due professionisti maniaci di tennis e studiosi, Luca Bottazzi e Carlo Rossi, hanno cercato di sintetizzare il pensiero di Tilden, non semplicemente la sua vita, in un volume dal titolo il Codice del Tennis (Guarini NEXT editore, 20 euro ).
Le tappe di una vita insolitamente non conformista vi sono raccontate, dalla nascita altoborghese, alla decimazione di una famiglia sfortunata, dal volontariato nella prima guerra mondiale, agli inizi di una carriera diversa, perché solitamente i neofiti seguono i maestri e non una loro personale teoria dei gesti e della filosofia — permettetemi — del gioco. I successi di Big Bill sono noti, dal primo Wimbledon del 1920, e dal primo Campionato americano dello stesso anno fino al ’26 senza stop, le 6 Davis di fila, e alla fine, superati i trentacinque anni, la resa parziale ai grandissimi Moschettieri francesi. Per scendere un po’ più in dettaglio, ricordo la vittoria del campione più razionale che istintivo a Wimbledon nel 1920, bissata l’anno seguente, e ribadita nel 1930, a 37 anni, 3 vittorie dunque su sole 4 partecipazioni. Avrebbe anche preso parte, Big Bill, a tre Roland Garros, torneo che data dal 1925, per perdervi due finali. Curiosamente simile questo Tilden, mi fa notare un amico, a Federer, anche lui allergico alla terra rossa, vincitore una sola volta a Parigi. Naturalmente, Big Bill non affrontò mai il viaggio di sei settimane per giocare in Australia, e quindi il suo record di 10 Slam non è comparabile ai 17 del presunto miglior tennista di tutti i tempi. Anche se un fiero dubbio sorge dal rapporto tra i match vinti e persi: 907 vittorie per l’americano su 969 partite in torneo, mentre lo svizzero ne ha perdute 228 su 1235, e cioè circa il 18%, almeno secondo il suo sindacato ATP.
(…) Tutto ciò è una parentesi che in realtà poco riguarda “Il codice del tennis”, sulla cui copertina figurano per altro due splendidi diritti sovrapposti di Tilden e di Federer. Ma ricordo di aver scritto io stesso quanto incomparabili siano reciprocamente Omero e Dante. Per ritornare al Codice, egualmente noti furono i dissidi di Big Bill con la Federazione Usa, accanita sino a squalificarlo perché, in un mondo aristocratico, non era lecito né il giornalismo a pagamento, né libri di short stories, né il documentario che Tilden, amico di Charlie Chaplin e di Greta Garbo, girò a Hollywood. I dissidi con lo establishment americano giunsero al punto che, dalla posizione di capitano e insieme di uomo di punta della squadra di Davis, Big Bill venne momentaneamente rimosso, e fu necessaria, nel 1928, la generosa richiesta dei Moschettieri, suoi avversari, perché l’ambasciatore americano a Parigi, Myron Herrick, intercedesse a favore del tennista, che riebbe il suo posto molto probabilmente grazie alla Casa Bianca. Tragicamente avversata fu poi la sua omosessualità, che lo condusse addirittura due volte in prigione, novello Oscar Wilde. Dall’analisi psicologica delle sue teorie, oltreché suggerimenti sulle caratteristiche psichiche degli avversari sotto forma di bersaglio, emerge incredibilmente una sorta di profezia, controllata negli ultimi anni sui dati di Federer Djokovic e Nadal, che indicava nel 40% dei punti giocati, i vincenti dei fenomeni. C’è soltanto da sperare che simile studio inatteso trovi attenzione in America, dove non si è andati oltre l’ottima biografia del mio amico Frank. Gli autori Bottazzi e Rossi hanno addirittura creato un sito che si rivolge alla federazione americana, colpevolmente distratta nel non battezzare almeno un campo di Flushing Meadows col nome di Tilden. E non posso finire questo seguito di accenni troppo personali chiedendomi se non mi sia sbagliato io stesso, a suo tempo, ad evitar di scrivere una biografia che nessuno voleva. Come quella della Lenglen.
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Re: Clerici...
Il salto del fauno...questa me l'ero persa
Ti piace il doppio? Preferisco il threesome
- dsdifr
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Re: Clerici...
Veder tennis dal vivo gli risveglia l'ispirazione, c'è poco da fare.
Estratti dal pezzo su Repubblica di oggi:
"Berdych b. Bautista Agut 7/5 6/4. Due cognomi sono forse troppi per un singolarista modesto quale lo spagnolo".
"Ferrer b. Simon 6/2 6/7 6/1. Polemiche si sono accese sul numero degli errori gratuiti di Ferrer. Chi sostiene che siano stati due e non tre ha probabilmente ragione".
Estratti dal pezzo su Repubblica di oggi:
"Berdych b. Bautista Agut 7/5 6/4. Due cognomi sono forse troppi per un singolarista modesto quale lo spagnolo".
"Ferrer b. Simon 6/2 6/7 6/1. Polemiche si sono accese sul numero degli errori gratuiti di Ferrer. Chi sostiene che siano stati due e non tre ha probabilmente ragione".
Re: Clerici...
85 anni quest'anno eh
Re: Clerici...
ma da dove diavolo le tira fuori ?dsdifr ha scritto:Veder tennis dal vivo gli risveglia l'ispirazione, c'è poco da fare.
Estratti dal pezzo su Repubblica di oggi:
"Berdych b. Bautista Agut 7/5 6/4. Due cognomi sono forse troppi per un singolarista modesto quale lo spagnolo".
"Ferrer b. Simon 6/2 6/7 6/1. Polemiche si sono accese sul numero degli errori gratuiti di Ferrer. Chi sostiene che siano stati due e non tre ha probabilmente ragione".
approccio concreto e pragmatico, frutto di esperienze, anche pesanti, maturate sul campo in contrapposizione con l'attitudine salottiera di questi utenti, perfettamente in linea con tanto mondo internettiano fatto di presunti esperti da tastiera. (cit.)
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Re: Clerici...
tennisfan82 ha scritto:Il salto del fauno...questa me l'ero persa
mitico Gianni
Muster mostruoso comunque, prodezza
come minimo gliene auguro altri 85s&v ha scritto:85 anni quest'anno eh
Re: Clerici...
E la solita invettiva contro i registi (incompetenti).
"Faccelo rivedere!!"
"Faccelo rivedere!!"
balbysauro ha scritto:scusa nickognito, ma continui ad aggirare il punto
Re: Clerici...
gran pezzo di Clerici sul ipresa del leonessa
Le magie di Parigi. Schiavone rimonta e torna Leonessa (Gianni Clerici, La Repubblica).
“Epuisé” mi dice la bella giornalaia e, dubbiosa che il povero italiano l’abbia compresa, “Tout vendu”» mi ripete. Stavo cercando la Repubblica, per controllare i miei errori, ma l’ultima copia è tra le mani di una turista italiana, che l’ha aperta su pagina 39, e scuotendo il capo, “Lei la voleva per il tennis?” domanda. “Anche, gentile signora”. “Allora gliela rivendo – afferma – con aria lievemente infastidita. E compro l’Equipe, così almeno vengo a sapere che cosa è avvenuto ieri, al torneo. Questo Clerici avrebbe da imparare, dai suoi colleghi francesi”. Cinquant’anni di matrimonio mi hanno insegnato a non obiettare. Potrei certo sottolineare il fatto che l’Equipe dedica cinque pagine al tennis, ma il cliente ha sempre ragione, e non solo al ristorante. Mi avvio quindi verso la cosiddetta Sala Stampa, e rischio di essere travolto da un collega-bambino che ne esce. “Vado dalla Schiavone” mi grida. “Sta battendo la Kuznetsova”. Non soltanto per dare fiducia ad una giovane generazione disoccupata, seguo il futuro giornalista, per ritrovarmi sul Campo n. 1, nella tribuna in cui hanno preso posto una ventina di estensori di blog italiani. E vedo d’improvviso in campo la campionessa di Parigi 2010 Francesca Schiavone. Privata per di più di un doppio Roland Garros da un perverso errore della testarda arbitra svedese Enzell. Contro Francesca, giovanile in canottiera verde-chiaro, si accanisce quella che definii Miss Brutt, Svetlana Kuznetsova. Russo catalana, per tennis o per amore, Svetlana era stata non meno beatificata di Francesca, con il n. 2 mondiale nel 2007 e il 3 nel 2009. Ma, al di là delle passate classifiche, quel che mi ritornava alla mente, mentre le due si affrontavano, erano altre due partite che avevo ammirate e, nei miei limiti di scettico, sofferte. Nella prima, a Parigi 2006 mi ero chiesto se simile avversaria non fosse più adatta al wrestling che alla racchetta ma, dopo esser venuto a conoscenza dell’attività ciclistica e natatoria di genitori olimpici, mi ero detto tristemente che il tennis, più che un gioco, era oramai uno sport. Alla seconda, nel 2011, ero spettatore nell’incandescente ferragosto di Melbourne, vicino al ricovero per insolazione, così come la Leonessa, più volte assistita dai medici indigeni, prima di una vittoriona che aveva condotto il record mondiale di un finale 16-14 a quattro ore e 44 minuti. Oggi il copione si è ripetuto, con la Brutt che mancava ben 6 set point contro 1 nel primo set, ma concludeva al settimo. Seguiva un secondo in cui Francesca lavorava finemente di polso sfilando alla bestiolona un servizio a 5 pari, mentre nel terzo pareva, sotto un cielo grigiastro, di rivedere i raggi australiani, e addirittura, un match point per Kuznetsova, cancellato e infine felicemente imitato per il 10-8. Si può dunque affermare che la semiscomparsa Schiavone è ritornata Leonessa.
Le magie di Parigi. Schiavone rimonta e torna Leonessa (Gianni Clerici, La Repubblica).
“Epuisé” mi dice la bella giornalaia e, dubbiosa che il povero italiano l’abbia compresa, “Tout vendu”» mi ripete. Stavo cercando la Repubblica, per controllare i miei errori, ma l’ultima copia è tra le mani di una turista italiana, che l’ha aperta su pagina 39, e scuotendo il capo, “Lei la voleva per il tennis?” domanda. “Anche, gentile signora”. “Allora gliela rivendo – afferma – con aria lievemente infastidita. E compro l’Equipe, così almeno vengo a sapere che cosa è avvenuto ieri, al torneo. Questo Clerici avrebbe da imparare, dai suoi colleghi francesi”. Cinquant’anni di matrimonio mi hanno insegnato a non obiettare. Potrei certo sottolineare il fatto che l’Equipe dedica cinque pagine al tennis, ma il cliente ha sempre ragione, e non solo al ristorante. Mi avvio quindi verso la cosiddetta Sala Stampa, e rischio di essere travolto da un collega-bambino che ne esce. “Vado dalla Schiavone” mi grida. “Sta battendo la Kuznetsova”. Non soltanto per dare fiducia ad una giovane generazione disoccupata, seguo il futuro giornalista, per ritrovarmi sul Campo n. 1, nella tribuna in cui hanno preso posto una ventina di estensori di blog italiani. E vedo d’improvviso in campo la campionessa di Parigi 2010 Francesca Schiavone. Privata per di più di un doppio Roland Garros da un perverso errore della testarda arbitra svedese Enzell. Contro Francesca, giovanile in canottiera verde-chiaro, si accanisce quella che definii Miss Brutt, Svetlana Kuznetsova. Russo catalana, per tennis o per amore, Svetlana era stata non meno beatificata di Francesca, con il n. 2 mondiale nel 2007 e il 3 nel 2009. Ma, al di là delle passate classifiche, quel che mi ritornava alla mente, mentre le due si affrontavano, erano altre due partite che avevo ammirate e, nei miei limiti di scettico, sofferte. Nella prima, a Parigi 2006 mi ero chiesto se simile avversaria non fosse più adatta al wrestling che alla racchetta ma, dopo esser venuto a conoscenza dell’attività ciclistica e natatoria di genitori olimpici, mi ero detto tristemente che il tennis, più che un gioco, era oramai uno sport. Alla seconda, nel 2011, ero spettatore nell’incandescente ferragosto di Melbourne, vicino al ricovero per insolazione, così come la Leonessa, più volte assistita dai medici indigeni, prima di una vittoriona che aveva condotto il record mondiale di un finale 16-14 a quattro ore e 44 minuti. Oggi il copione si è ripetuto, con la Brutt che mancava ben 6 set point contro 1 nel primo set, ma concludeva al settimo. Seguiva un secondo in cui Francesca lavorava finemente di polso sfilando alla bestiolona un servizio a 5 pari, mentre nel terzo pareva, sotto un cielo grigiastro, di rivedere i raggi australiani, e addirittura, un match point per Kuznetsova, cancellato e infine felicemente imitato per il 10-8. Si può dunque affermare che la semiscomparsa Schiavone è ritornata Leonessa.
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Re: Clerici...
Non la considero una battaglia: se mi mettessi a fare una battaglia, ne uscirei distrutto (G.V.)
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Re: Clerici...
Nickognito ha scritto:
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Re: Clerici...
madmarat ha scritto:Le punzecchiare ai blogger sono bellissime
un mondo in due righe
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Re: Clerici...
ma anche come parla della kuzza, o la frase 'Cinquant’anni di matrimonio mi hanno insegnato a non obiettare'madmarat ha scritto:Le punzecchiare ai blogger sono bellissime
Non la considero una battaglia: se mi mettessi a fare una battaglia, ne uscirei distrutto (G.V.)
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Re: Clerici...
per dare fiducia ad una giovane generazione disoccupata
ero spettatore nell’incandescente ferragosto di Melbourne, vicino al ricovero per insolazione, così come la Leonessa, più volte assistita dai medici indigeni
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Re: Clerici...
Uno così non nascerà piùStavo cercando la Repubblica, per controllare i miei errori
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Re: Clerici...
II personaggio; Serena Williams a 33 anni, dopo 21 majors già conquistati, può consacrarsi a New York
Gianni Clerici, la repubblica del 31.08.2015
Aoh Dottò, che ce vuo fà, ‘na bbioggrafia? mi ha detto l’ incaricato dell’archivio, dopo avermi spedito l’equivalente di trecentoquarantuno pagine dedicate in articoli a Serena Williams. Preleverò una minisintesi, perché ciò che ci chiedono, aficionados di tennis e addirittura lettori, altro non è che una risposta a: ..Riuscirà Serena a realizzare, con la vittoria nel prossimo US Open, un Grande Slam?… 1) Si intende per Grand Slam, con riferimento al bridge, la vittoria nei quattro grandi tornei tuttora organizzati dalle maggiori Federazioni mondiali, Australian. Roland Garros, Wimbledon, US Open. Simile quadrinomio esiste dal 1933, inventato dal giorno in cui non riuscì a realizzarlo l’australiano Jack Crawford…Ci riuscì infine Steffi Graf, nel 1988. Tra le altre grandi, Martina Navratilova ci andò vicina due volte , riuscendo a vincere una sorta di Slam biennale (tre titoli in un anno più uno nel successivo) che sollevò entusiasmi e crisi che nel 1984, prima che un voto giornalisti, a Parigi, organizzato dallo Scriba, giungesse a negarti la validità….
Ne sono stato testimone assieme a Bud Collins, lo Scriba americano, quando rifiutò di sborsare i mille dollari richiesti da quel visionario afflitto da apparente follia. Serena ha iniziato il professionismo nel 1995 a Quebec City, vincendo in tutto due games contro la poco nota Ann Miller nelle qualificazioni. Nel ’96 papà la rimandò all’asilo, ma l’anno dopo eccola raggiungere il fatidico n. 99, battendo tra l’altro in un solo torneo, a Chicago, la Pierce e la Seles ( n. 7 e 4 mondiali) partendo dal n. 304. Inizia di li una vicenda che sarebbe interessante sviluppare, chiamata Williams versus Williams, o meglio Venus contro Serena. In simile vicenda ho creduto spesso, insieme a più autorevoli colleghi, di intuire la presenza del padre padrone Richards, che secondo noi giungeva addirittura a tracciare i copioni del sorellicidio, regista sin troppo presente, nel suo ego-bicentrismo. Papà si sarebbe comunque allontanato dal suo presunto ruolo, dopo una vicenda famigliare nella quale la moglie gli cadeva su un gomito fratturandosi tre costole, e che lo sceriffo locale attribuiva, chissà perché, *** ad una famigliare che si era rifiutata di testimoniare. Quasi contemporaneamente, nel 2010, insieme a lui vedevamo apparire una bella moretta, di un anno più anziana di Venus, tale Lakeisha Graham, presto allattante un morettino, in fondo fratellastro delle tenniste, che già ne avevano avute tre, una della quali, Yetunde, uccisa da un gangster di Compton, luogo di nascita non proprio ideale. Dicevo dei match tra le sorelle, e avrei chiesto al mio amico e specialista Fulvio Scaparro, se mai esistesse un complesso dal nome greco, che, come altri ben noti, potesse meglio definire i rapporti tra Serena e Venus. .La sorella più anziana nutre sentimenti materni., mi sarebbe stato risposto, e sarei stato quindi respinto nei miei umili territori del diritto e del rovescio. Per quanto di segreto accade dentro a noi, dovrei forse rivolgermi alle annate nei precedenti negativi di Serena, e soprattutto al primo turno di Parigi 2012, quando la vidi battuta da una tipa qualunque, Virginie Razzano figlia di un pugile italiano emigrato, in tre set, dopo esser stata vanamente, e due volte, a due punti dal match nel secondo set. A questa partita, terminata in lacrime e sfasci di racchette, avrebbe assistito un coach francese, di origine greca, Patrick Mouratoglou, che iniziava a prendersi cura di Serena, con risultati negativi soltanto per la propria moglie, presto divorziata. Da quel giorno la Serena vincente ha ripreso a far evaporare la sua controfigura negativa, potenziando soprattutto un colpo già temibile, una battuta mai vista nel tennis femminile. Ma, a questo punto, dovrei provare a rispondere al quesito che mi è stato posto dai miei gestori, e da più di un lettore. Riuscirà Serena a far suo lo US Open, e quindi Grande Slam? Mi rivolgo a mia volta agli oroscopi.
Gianni Clerici, la repubblica del 31.08.2015
Aoh Dottò, che ce vuo fà, ‘na bbioggrafia? mi ha detto l’ incaricato dell’archivio, dopo avermi spedito l’equivalente di trecentoquarantuno pagine dedicate in articoli a Serena Williams. Preleverò una minisintesi, perché ciò che ci chiedono, aficionados di tennis e addirittura lettori, altro non è che una risposta a: ..Riuscirà Serena a realizzare, con la vittoria nel prossimo US Open, un Grande Slam?… 1) Si intende per Grand Slam, con riferimento al bridge, la vittoria nei quattro grandi tornei tuttora organizzati dalle maggiori Federazioni mondiali, Australian. Roland Garros, Wimbledon, US Open. Simile quadrinomio esiste dal 1933, inventato dal giorno in cui non riuscì a realizzarlo l’australiano Jack Crawford…Ci riuscì infine Steffi Graf, nel 1988. Tra le altre grandi, Martina Navratilova ci andò vicina due volte , riuscendo a vincere una sorta di Slam biennale (tre titoli in un anno più uno nel successivo) che sollevò entusiasmi e crisi che nel 1984, prima che un voto giornalisti, a Parigi, organizzato dallo Scriba, giungesse a negarti la validità….
Ne sono stato testimone assieme a Bud Collins, lo Scriba americano, quando rifiutò di sborsare i mille dollari richiesti da quel visionario afflitto da apparente follia. Serena ha iniziato il professionismo nel 1995 a Quebec City, vincendo in tutto due games contro la poco nota Ann Miller nelle qualificazioni. Nel ’96 papà la rimandò all’asilo, ma l’anno dopo eccola raggiungere il fatidico n. 99, battendo tra l’altro in un solo torneo, a Chicago, la Pierce e la Seles ( n. 7 e 4 mondiali) partendo dal n. 304. Inizia di li una vicenda che sarebbe interessante sviluppare, chiamata Williams versus Williams, o meglio Venus contro Serena. In simile vicenda ho creduto spesso, insieme a più autorevoli colleghi, di intuire la presenza del padre padrone Richards, che secondo noi giungeva addirittura a tracciare i copioni del sorellicidio, regista sin troppo presente, nel suo ego-bicentrismo. Papà si sarebbe comunque allontanato dal suo presunto ruolo, dopo una vicenda famigliare nella quale la moglie gli cadeva su un gomito fratturandosi tre costole, e che lo sceriffo locale attribuiva, chissà perché, *** ad una famigliare che si era rifiutata di testimoniare. Quasi contemporaneamente, nel 2010, insieme a lui vedevamo apparire una bella moretta, di un anno più anziana di Venus, tale Lakeisha Graham, presto allattante un morettino, in fondo fratellastro delle tenniste, che già ne avevano avute tre, una della quali, Yetunde, uccisa da un gangster di Compton, luogo di nascita non proprio ideale. Dicevo dei match tra le sorelle, e avrei chiesto al mio amico e specialista Fulvio Scaparro, se mai esistesse un complesso dal nome greco, che, come altri ben noti, potesse meglio definire i rapporti tra Serena e Venus. .La sorella più anziana nutre sentimenti materni., mi sarebbe stato risposto, e sarei stato quindi respinto nei miei umili territori del diritto e del rovescio. Per quanto di segreto accade dentro a noi, dovrei forse rivolgermi alle annate nei precedenti negativi di Serena, e soprattutto al primo turno di Parigi 2012, quando la vidi battuta da una tipa qualunque, Virginie Razzano figlia di un pugile italiano emigrato, in tre set, dopo esser stata vanamente, e due volte, a due punti dal match nel secondo set. A questa partita, terminata in lacrime e sfasci di racchette, avrebbe assistito un coach francese, di origine greca, Patrick Mouratoglou, che iniziava a prendersi cura di Serena, con risultati negativi soltanto per la propria moglie, presto divorziata. Da quel giorno la Serena vincente ha ripreso a far evaporare la sua controfigura negativa, potenziando soprattutto un colpo già temibile, una battuta mai vista nel tennis femminile. Ma, a questo punto, dovrei provare a rispondere al quesito che mi è stato posto dai miei gestori, e da più di un lettore. Riuscirà Serena a far suo lo US Open, e quindi Grande Slam? Mi rivolgo a mia volta agli oroscopi.
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Re: Clerici...
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Re: Clerici...
taylorhawkins89 ha scritto:http://www.huffingtonpost.it/2015/10/18 ... _ref=italy
Non ha risposto alla domanda che le facevo prima: c’è una relazione tra i suoi più grandi interessi, il tennis e la religione?
È una domanda che mi sono fatto più volte. Ma per ora non ho trovato una risposta che abbia un minimo di intelligenza.
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Re: Clerici...
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Re: Clerici...
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Re: Clerici...
tennisfan82 ha scritto:Ospite poco fa da Fazio.
Che fenomeno
86 anni, Fazio reso innocuo, che bello.
"Quanto ti sei inventato?"
"no, adesso ci credo veramente"
Siamo tutti testimoni "Perchè ti chiamano Pilone?"
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Re: Clerici...
È morto il mio amico Bud Collins, dopo una lunghissima malattia, durante la quale ha percorso il sentiero della notorietà, che in America tocca a chi è entrato nella ristretta cerchia della Hall of Fame di Newport. Nell’ultima foto, tragicamente postata su Facebook, Bud appare disteso sul letto della sua casa di Boston, e uno dei suoi nipotini lo guarda, dopo avergli offerto una palla e una racchetta, che il moribondo tiene tra le mani – non sono sacrilego – come una croce.
Fu proprio la racchetta il simbolo che ci avvicinò, la prima volta che lo vidi di persona, dopo averlo letto da quando imparai l’inglese, sul Boston Globe. Ci incontrammo nel 1968, a Bournemouth, in occasione del primo torneo Open della storia. Oltre ai colleghi inglesi, c’erano soltanto un americano, una francese dell’Equipe, e io. Bud si sorprese che, da un paese quale l’Italia, fosse stato inviato un giornalista, o scribe, come diceva lui. Era stato in Europa al seguito di avvenimenti pugilistici o di basket, ma aveva un’idea superata dell’Italia, legata all’immigrazione negli Stati Uniti, alla mafia, al fascismo. Per la sua naturale, vivissima simpatia, lo invitai allora nella casa dove mi ero da poco sposato, sul lago di Como. La sua risposta fu tipica di chi non conosceva l’Italia: “Dovrei venire con la mia ragazza, una columnist del Boston Globe, Gambalunga. Non siamo sposati. Cosa penserà tua moglie?”. Rimase, con Gambalunga, una settimana, nella quale gli mostrai San Abbondio comasco e il Cenacolo e gli feci conoscere Gianni Brera e Mario Soldati. Un poco sconvolto da personaggi che paragonò a Hemingway e Faulkner, lo divenne ancor di più quando lo invitai a seguirmi, per un match di Coppa Davis, a Cagliari. Non sapeva dove fosse, non conosceva la Sardegna. Fu lì, che in una sera vivamente allietata dal vermentino, mi accadde di arrampicarmi sui pennoni che reggevano un telone propagandistico del Movimento Sociale Italiano, il neo fascismo di allora. Aiutato da Bud e da Sergio Tacchini, strappammo il telone, e il giorno seguente ci facemmo confezionare due paia di pantaloni, che Bud iniziò a indossare durante la sua notissima trasmissione Fragole con Panna, una cronaca televisiva molto creativa delle giornate di Wimbledon, che lo portò ad una notorietà mondiale.
Non soltanto grazie alla reciproca amicizia, Bud modificò la sua iniziale visione dell’Italia, e prese a definire gli Internazionali romani il ‘Quinto Slam’. Giunse addirittura a simpatizzare con il pubblico, per me spesso scorretto, del Foro Italico, e fu capace di una definizione che indispettì più di un collega britannico: “Gli inglesi hanno forse inventato il tennis, ma gli italiani lo hanno umanizzato”. Il suo affetto per l’Italia e la stima per Nicola Pietrangeli, lo spinsero ad essere l’unico cronista americano presente alla nostra vittoria in Coppa Davis, a Santiago, nel 1976, e non cessò mai di indossare la cravatta che offrii ai giocatori azzurri, al tempo in cattivi rapporti con una Federazione indegna di loro. Il suo amore per l’Italia trovò addirittura modo di manifestarsi alla prima di un grande film di Olmi, l’Albero degli Zoccoli, che vedemmo al Festival di Locarno, alla fine del quale prese a gridare entusiasta, col suo vivo accento bostoniano: “Io sono italiano, io sono anche lombardo”.
Ottimo tennista, capace di vincere, mi pare con la King, i campionati indoor Usa di doppio misto, Bud arrivò felicemente ai libri, e la sua Tennis Encyclopedia è il libro più letto del mondo del nostro sport preferito, insieme al mio 500 Anni. Né vanno dimenticate le due straordinarie biografie di Rod Laver e di Evonne Goolagong. E, infine, My Life with the Pros, che sostituì un libro che Bud mi propose più volte di scrivere insieme, visitando i campioni del passato, e che non realizzammo causa la mia pigrizia. Al nome di Bud Collins la Federazione Usa ha dedicato la sala stampa di Flushing Meadows, mentre io non posso far di più che dedicargli la stanza della mia casa avita, sul lago di Como, dove riteneva “di scrivere meglio”. E stato un onore, caro Bud
Fu proprio la racchetta il simbolo che ci avvicinò, la prima volta che lo vidi di persona, dopo averlo letto da quando imparai l’inglese, sul Boston Globe. Ci incontrammo nel 1968, a Bournemouth, in occasione del primo torneo Open della storia. Oltre ai colleghi inglesi, c’erano soltanto un americano, una francese dell’Equipe, e io. Bud si sorprese che, da un paese quale l’Italia, fosse stato inviato un giornalista, o scribe, come diceva lui. Era stato in Europa al seguito di avvenimenti pugilistici o di basket, ma aveva un’idea superata dell’Italia, legata all’immigrazione negli Stati Uniti, alla mafia, al fascismo. Per la sua naturale, vivissima simpatia, lo invitai allora nella casa dove mi ero da poco sposato, sul lago di Como. La sua risposta fu tipica di chi non conosceva l’Italia: “Dovrei venire con la mia ragazza, una columnist del Boston Globe, Gambalunga. Non siamo sposati. Cosa penserà tua moglie?”. Rimase, con Gambalunga, una settimana, nella quale gli mostrai San Abbondio comasco e il Cenacolo e gli feci conoscere Gianni Brera e Mario Soldati. Un poco sconvolto da personaggi che paragonò a Hemingway e Faulkner, lo divenne ancor di più quando lo invitai a seguirmi, per un match di Coppa Davis, a Cagliari. Non sapeva dove fosse, non conosceva la Sardegna. Fu lì, che in una sera vivamente allietata dal vermentino, mi accadde di arrampicarmi sui pennoni che reggevano un telone propagandistico del Movimento Sociale Italiano, il neo fascismo di allora. Aiutato da Bud e da Sergio Tacchini, strappammo il telone, e il giorno seguente ci facemmo confezionare due paia di pantaloni, che Bud iniziò a indossare durante la sua notissima trasmissione Fragole con Panna, una cronaca televisiva molto creativa delle giornate di Wimbledon, che lo portò ad una notorietà mondiale.
Non soltanto grazie alla reciproca amicizia, Bud modificò la sua iniziale visione dell’Italia, e prese a definire gli Internazionali romani il ‘Quinto Slam’. Giunse addirittura a simpatizzare con il pubblico, per me spesso scorretto, del Foro Italico, e fu capace di una definizione che indispettì più di un collega britannico: “Gli inglesi hanno forse inventato il tennis, ma gli italiani lo hanno umanizzato”. Il suo affetto per l’Italia e la stima per Nicola Pietrangeli, lo spinsero ad essere l’unico cronista americano presente alla nostra vittoria in Coppa Davis, a Santiago, nel 1976, e non cessò mai di indossare la cravatta che offrii ai giocatori azzurri, al tempo in cattivi rapporti con una Federazione indegna di loro. Il suo amore per l’Italia trovò addirittura modo di manifestarsi alla prima di un grande film di Olmi, l’Albero degli Zoccoli, che vedemmo al Festival di Locarno, alla fine del quale prese a gridare entusiasta, col suo vivo accento bostoniano: “Io sono italiano, io sono anche lombardo”.
Ottimo tennista, capace di vincere, mi pare con la King, i campionati indoor Usa di doppio misto, Bud arrivò felicemente ai libri, e la sua Tennis Encyclopedia è il libro più letto del mondo del nostro sport preferito, insieme al mio 500 Anni. Né vanno dimenticate le due straordinarie biografie di Rod Laver e di Evonne Goolagong. E, infine, My Life with the Pros, che sostituì un libro che Bud mi propose più volte di scrivere insieme, visitando i campioni del passato, e che non realizzammo causa la mia pigrizia. Al nome di Bud Collins la Federazione Usa ha dedicato la sala stampa di Flushing Meadows, mentre io non posso far di più che dedicargli la stanza della mia casa avita, sul lago di Como, dove riteneva “di scrivere meglio”. E stato un onore, caro Bud
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Re: Clerici...
Avesse incontrato tuborovescio, al massimo gli faceva conoscere Pindaro e Nickognitotennisfan82 ha scritto:...e gli feci conoscere Gianni Brera e Mario Soldati...
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Re: Clerici...
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Re: Clerici...
il problema era con cosa confezionare i tuoi pantaloniferryboat ha scritto:Avesse incontrato tuborovescio, al massimo gli faceva conoscere Pindaro e Nickognitotennisfan82 ha scritto:...e gli feci conoscere Gianni Brera e Mario Soldati...
Re: Clerici...
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Re: Clerici...
Federer: noi, innamorati di un’icona e del fascino dell’immortalità (Gianni Clerici, La Repubblica)
Quelli come lui un tempo venivano, ancora in vita, trasferiti all’Olimpo se erano belli come lui in concorrenza con Ganimede, il coppiere, sebbene Federer osservi di essere “quasi astemio”. Ora quelli come lui sono ammirati, almeno sinché recitino ai loro massimi, interpretino cioè se stessi nel film della vita, un film pubblico. Nel domandarmi perché non scrivessi un pezzo su di lui, un pezzo simile a quelli che appaiono sui giornali di ogni paese, il mio suggeritore mi ha ricordato che Lui potrebbe arrivare alla sua dodicesima finale a Wimbledon, torneo, per i non aficionados, iniziato nel 1884. Faccio allora due passi, e dal Center Court, dove verrà accolto oggi dall’affetto generale, mi sposto al Museo del Tennis, che conserva, chissà sino a quando, i miei taccuini di scriba disordinato. Li apro, ed ecco cosa rileggo, dimentico di quanto accadde, forse per l’emozione che ancora provo nello scrivere una column, percorsa, insieme all’ammirazione, da fretta, da incertezze, da errori.
2003. Incontro al bar Sydney Wood, vincitore nel 1931, che sorride entusiasta “Spero vinca lo svizzero – mi dice – In questo tempo di muratori, gioca come una volta. Ha un rovescio tale e quale a Donald Budge“. Roger giocava contro Philippoussis, un bastione australiano. Mi copio: “Era insomma Federer a offrire a noi privilegiati spettatori un’esibizione straordinaria, e, riassumo, 9 errori contro 15 sui rimbalzi, quattordici vincenti a rete, 21 aces. Addio Philippoussis”.
2004. Il 90 per cento di noi spiritualisti, che crediamo che l’anima di Tilden si sia reincarnata, non aveva dubbi sulla vicenda che opponeva una fresca Divinità ad un americanaccio dotato di muscolatura da pugile, come Andy Roddick.
2005. E adesso cosa scrivo? mi sono chiesto, rientrando in sala stampa. Per fortuna sedevo fianco a un collega sicuramente più capace, George Vecsey, del New York Times, e leggevo, sul suo computer: “Dice Orson Welles che In Italia ci sono stati gli assassini dei Borgia, ma anche Leonardo e il Rinascimento. In Svizzera Martin Lutero, la democrazia. Avevano inventato solo l’orologio a cucù. Ma ora c’è Federer”.
2006. Per sua fortuna, le armi di Federer, sull’erba, non sono paragonabili a nessuno, tantomeno a Nadal. Nadal aveva però dalla sua recentissime vittorie su altri fondi. La resa di Rafa giungeva da una sorta di smash alla viva il parroco che pareva offendere la concezione artistica che Federer ha del gioco.
2007. Federer ha raggiunto Borg, ma che fatica con Nadal. “Te la saresti meritata anche tu, gli ha sussurrato alla fine”. C’era, in quell’affermazione, molta verità, ma ancor più umiltà.
2009. Alla fine di un match di quattro ore e 16 minuti, soffocato a tratti dall’angoscia di non riuscire a battere un avversario dominato 18 volte su 20 incontri, Roger è riuscito a farcela. Mentre, da un palco, lo applaudiva giudicandolo migliore di sé Pete Sampras, nel suo abituale fair play Roger ha indirizzato una dichiarazione a Nadal che, infortunato, gli aveva facilitato di molto il compito.
2012. Re Federer è tornato. All’inizio della vicenda, quello specialista di Djokovic si è opposto ai suoi ikebana ma non è riuscito a contrastarlo oltre un’ora e 36 minuti, quando il sommo giardiniere gli ha strappato di mano la paletta del servizio.
Mi par giusto ora, dopo che il match di ieri contro Cilic, ha reso Roger ancor più amato, chiedermi se il destino possa spingerlo a vincere un nuovo Wimbledon. Non posso non augurarmi che vinca, perché è difficile sfuggire al fascino della Immortalità, dote divina e quindi difficile da definire positivamente. Di Roger si occuperebbero allora ancor di più nuovi biografi, oltre ai cinque che hanno scritto volumi addirittura immortali su di lui. Dal primo, René Stauffer, a uno degli ultimi, Foster Wallace, al cui suicidio qualcuno afferma non sia stata estranea la consapevolezza di non poter divenire un Federer della penna. Non li ha quasi letti, Federer i suoi agiografi, ma non per presunzione. Il suo successo non gli ha certo negato umane conoscenze, ma non gli ha dato il tempo per riflettere a quanto gli altri pensano di lui. È questo il segno di qualcuno che ha evitato una accessibilissima presunzione, senza correre il rischio di cadervi. Qualcuno che ha accettato con insolita naturalezza, non dico umiltà, il dono che gli Dei avevano fatto ad un modestissimo viaggiatore di commercio in prodotti chimici, e ad una moglie incontrata in Sudafrica. Gli auguro di vincere il suo ottavo Wimbledon, e di rimanere eguale a se stesso.
Quelli come lui un tempo venivano, ancora in vita, trasferiti all’Olimpo se erano belli come lui in concorrenza con Ganimede, il coppiere, sebbene Federer osservi di essere “quasi astemio”. Ora quelli come lui sono ammirati, almeno sinché recitino ai loro massimi, interpretino cioè se stessi nel film della vita, un film pubblico. Nel domandarmi perché non scrivessi un pezzo su di lui, un pezzo simile a quelli che appaiono sui giornali di ogni paese, il mio suggeritore mi ha ricordato che Lui potrebbe arrivare alla sua dodicesima finale a Wimbledon, torneo, per i non aficionados, iniziato nel 1884. Faccio allora due passi, e dal Center Court, dove verrà accolto oggi dall’affetto generale, mi sposto al Museo del Tennis, che conserva, chissà sino a quando, i miei taccuini di scriba disordinato. Li apro, ed ecco cosa rileggo, dimentico di quanto accadde, forse per l’emozione che ancora provo nello scrivere una column, percorsa, insieme all’ammirazione, da fretta, da incertezze, da errori.
2003. Incontro al bar Sydney Wood, vincitore nel 1931, che sorride entusiasta “Spero vinca lo svizzero – mi dice – In questo tempo di muratori, gioca come una volta. Ha un rovescio tale e quale a Donald Budge“. Roger giocava contro Philippoussis, un bastione australiano. Mi copio: “Era insomma Federer a offrire a noi privilegiati spettatori un’esibizione straordinaria, e, riassumo, 9 errori contro 15 sui rimbalzi, quattordici vincenti a rete, 21 aces. Addio Philippoussis”.
2004. Il 90 per cento di noi spiritualisti, che crediamo che l’anima di Tilden si sia reincarnata, non aveva dubbi sulla vicenda che opponeva una fresca Divinità ad un americanaccio dotato di muscolatura da pugile, come Andy Roddick.
2005. E adesso cosa scrivo? mi sono chiesto, rientrando in sala stampa. Per fortuna sedevo fianco a un collega sicuramente più capace, George Vecsey, del New York Times, e leggevo, sul suo computer: “Dice Orson Welles che In Italia ci sono stati gli assassini dei Borgia, ma anche Leonardo e il Rinascimento. In Svizzera Martin Lutero, la democrazia. Avevano inventato solo l’orologio a cucù. Ma ora c’è Federer”.
2006. Per sua fortuna, le armi di Federer, sull’erba, non sono paragonabili a nessuno, tantomeno a Nadal. Nadal aveva però dalla sua recentissime vittorie su altri fondi. La resa di Rafa giungeva da una sorta di smash alla viva il parroco che pareva offendere la concezione artistica che Federer ha del gioco.
2007. Federer ha raggiunto Borg, ma che fatica con Nadal. “Te la saresti meritata anche tu, gli ha sussurrato alla fine”. C’era, in quell’affermazione, molta verità, ma ancor più umiltà.
2009. Alla fine di un match di quattro ore e 16 minuti, soffocato a tratti dall’angoscia di non riuscire a battere un avversario dominato 18 volte su 20 incontri, Roger è riuscito a farcela. Mentre, da un palco, lo applaudiva giudicandolo migliore di sé Pete Sampras, nel suo abituale fair play Roger ha indirizzato una dichiarazione a Nadal che, infortunato, gli aveva facilitato di molto il compito.
2012. Re Federer è tornato. All’inizio della vicenda, quello specialista di Djokovic si è opposto ai suoi ikebana ma non è riuscito a contrastarlo oltre un’ora e 36 minuti, quando il sommo giardiniere gli ha strappato di mano la paletta del servizio.
Mi par giusto ora, dopo che il match di ieri contro Cilic, ha reso Roger ancor più amato, chiedermi se il destino possa spingerlo a vincere un nuovo Wimbledon. Non posso non augurarmi che vinca, perché è difficile sfuggire al fascino della Immortalità, dote divina e quindi difficile da definire positivamente. Di Roger si occuperebbero allora ancor di più nuovi biografi, oltre ai cinque che hanno scritto volumi addirittura immortali su di lui. Dal primo, René Stauffer, a uno degli ultimi, Foster Wallace, al cui suicidio qualcuno afferma non sia stata estranea la consapevolezza di non poter divenire un Federer della penna. Non li ha quasi letti, Federer i suoi agiografi, ma non per presunzione. Il suo successo non gli ha certo negato umane conoscenze, ma non gli ha dato il tempo per riflettere a quanto gli altri pensano di lui. È questo il segno di qualcuno che ha evitato una accessibilissima presunzione, senza correre il rischio di cadervi. Qualcuno che ha accettato con insolita naturalezza, non dico umiltà, il dono che gli Dei avevano fatto ad un modestissimo viaggiatore di commercio in prodotti chimici, e ad una moglie incontrata in Sudafrica. Gli auguro di vincere il suo ottavo Wimbledon, e di rimanere eguale a se stesso.
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Re: Clerici...
Che bel pezzo, grande Gianni.
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Re: Clerici...
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Re: Clerici...
E, quando i fanatici tifosi argentini, ancor più rumorosi dei nostri, avevano ripreso qualche speranza nel terzo, Fabio avrebbe terminato il long set con una successione di 12 punti a 2. Aveva certo ragione Flavia Pennetta, che nell’istante per me più emozionante di questa Davis mi avrebbe sfiorato una guancia con le sue invidiabili labbra, per domandarmi: «L’ho allenato bene?».
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Re: Clerici...
Perché non lo facciamo?» mi chiese il mio povero amico Bud Collins. «Perché non facciamo un libro sul Grande Slam. I0 ho scritto The History of Tennis, tu 500 Anni di Tennis. Potremmo fare un libro su chi ha vinto tutti e quattro i Grandi Tornei, e su chi non ci è riuscito». «Vuoi spingere ancor oltre la nostra frustrazione di tennisti e romanzieri falliti?» risposi io. «Ma ci pensi che 500 Anni mi è costato tre anni, il tuo mattone non di meno. Facciamoci qualche partitina tra noi e piantiamola lì, col Grande Slam». Il giorno seguente, tuttavia, eravamo in auto, vicino a Melbourne, per andare a incontrare Jack Crawford e cavarne due interviste, lui sul Boston Globe, io sul Giorno. Nel corso dell’intervista, Collins gli chiese se, nel 1933, quando fu sconfitto agli US Championship dal britannico Fred Perry, dopo aver vinto i primi tre Grandi Tornei, si fosse reso conto di essere vicinissimo al Grande Slam. Rispose di no. Non aveva letto i cronisti Allison Danzig, sul Brooklyn Eagles, e John Kieran, che avevano entrambi scritto «Se Crawford vince, sarebbe come segnare un Grande Slam nel bridge». Crawford ebbe la cortesia di spiegarmi che Grande Slam a bridge equivaleva a ben tredici prese a danno dell’avversario, cioè il massimo possibile in quel gioco. Quando gli chiesi se era vero che l’unico game rimediato nel quarto e quinto set, dopo il riposo, fosse dovuto a un bicchierino di whisky bevuto, lui (che era astemio), sorrise: «Forse non mi è stato d’aiuto. Ma avrei perso comunque quella finale. Ne riparlammo con Allison Danzig, quando Bud e io l’andammo a trovare nella Casa per anziani in cui trascorreva i suoi ultimi giorni. E ci disse che la faccenda del whisky era autentica, ma che forse non era stata l’unica ragione di quel Grande Slam perduto. Da allora, 13 tennisti e 18 tenniste sono arrivati a conquistare tre tornei su quattro, mentre solo tre uomini e tre donne hanno concluso un’annata di totale superiorità. Mi pare tuttavia il caso di una modesta osservazione storica a proposito del Grande Slam. Simile definizione, e relative statistiche, sono valide soltanto a partire dal 1968, anno in cui è nato il Tennis Open, e cioè il tennis aperto a tutti. Allora, nell’anno di nascita, la partecipazione era stata completa, ma si sarebbe via via rarefatta con l’istituzione del professionismo, vietato ai cosiddetti dilettanti, ai quali era proibita la possibilità di ricevere denaro in cambio delle loro esibizioni sul campo. Il primo che fu tanto bravo da realizzare il Grande Slam si chi amava Donald Budge; lui si avvantaggiò della vecchiaia sportiva di Crawford e soprattutto del passaggio al professionismo di Fred Perry, che quindi fu inabilitato a competere nei tornei. Passata la guerra, i casi di sommi tennisti che non raggiunsero il Grande Slam per aver preferito il denaro alla gloria aumentò: dal 1945 al 1961, l’americano Jack Kramer, il messico-americano Gonzales, l’australiano Lew Hoad, probabilmente i più forti del mondo nei loro anni ruggenti. L’ultimo dilettante a realizzare il secondo Grande Slam ufficiale della storia, nel 1962, fu Rod Laver. Laver rimase poi tra i professionisti sino allo storico anno della riunione tra le due caste, il 1968, e subito replicò il Grande Slam l’anno seguente, il ’69. I record femminili non sono più attendibili di quelli degli uomini, perché la traversata dell’Atlantico, quando gli aerei erano ancora delle sorti di aquiloni, non raggiungeva l’Australia per il primo Grande Slam dell’anno, e una nave, dall’Europa, impiegava sette settimane. Suzanne Lenglen, secondo me la più grande tennista mai nata, non andò dunque mai in Australia, e solo una volta negli Usa. Helen Wills, la sua grande avversaria, si limitò a venire in Gran Bretagna e vincervi otto Wimbledon, ma l’Australia la vide in cartolina. Nonostante tra le donne – non per Lenglen – fosse insolito il professionismo, si dovette aspettare l’americana Maureen Connolly, nel 1953, per avere le prima delle tre laureate, seguita dall’australiana Margaret Court nel 1970, e dalla tedesca Steffi Graf nel 1988. Maureen fu tanto regolare da non sbagliare quasi mai, fu quasi forte come un uomo. Margaret Court, sposata Smith, fu la prima autentica atleta tra le donne, negli anni in cui il tennis australiano scopri l’atletica leggera, vicenda che trasformò il tennis da un gioco in uno sport. Ho ancora negli occhi Margaret che si allenava nel salto del canguro, ginocchia flesse al petto, per dieci minuti, prima di scendere in campo. Ho parlato di sport olimpici, e questo mi spinge a ricordare Steffi Graf, che ebbi la fortuna di ammirare bambina. A conferma del suo grande talento atletico, ricordo una mattina alle Olimpiadi in quel di Seul nel 1988 in cui, andando a cercare qualche scuppettino al campo di allenamento, vidi d’improvviso Steffi che, invitata dagli amici tedeschi sulla pista, batteva, indossando le scarpe da tennis, le due atlete delle Germania Ovest che avrebbero partecipato ai centodieci ostacoli. Senza aver mai provato a saltare, senza aver mai corso un cento metri nemmeno alle elementari. Per lei questa incredibile performance fu naturale come per noi una corsettina per prendere l’autobus. E le fu altrettanto naturale prendere la medaglia d’oro insieme ai quattro titoli dello Slam di una stagione tuttora ineguagliata, forse ineguagliabile. Simile aggettivo mi spinge a parlare dei record mancati. In questo elenco sono compresi i Campioni contemporanei, Federer giunto 3 volte nei pressi del Grande Slam, Djokovic due, Nadal uno. E, insieme, quella che ci è andata pin vicina di tutti, Serena Williams, eliminata l’anno scorso da Robertina Vinci e da un segreto che, forse, solo un allievo del dottor Freud (tennista, lo sapevate?) potrebbe spiegarci. Mi rileggo, e mi dico non solo che ho esaurito lo spazio, ma che quest’anno nessuno sarà in grado di realizzare un nuovo Grande Slam. Mi dico anche che il mio povero Bud Collins aveva ragione. Forse avremmo dovuto passare qualche mese a scrivere quel libro.
F.F.
F.F.
“Volevo cambiare il mondo. L'ho fatto. L'ho reso peggiore”. -Arthur FinkelsteinNevenez 2019 ha scritto: Se nel 2022 Nadal non è ancora sparito, spariremo noi.
Re: Clerici...
Mentre Nadal andava in vantaggio per 3 a 1 nel quinto set della finale dell’Australian Open, e Federer pareva troppo stanco per riuscire a fermarlo, un amico del mio club tennistico e televisivo mi sorrideva: «Adesso come farai a spiegare perché ti sei sbagliato, dopo che hai scritto e giurato a tutti noi che Federer era in grado di rivincere uno Slam, soprattutto questo Slam». Un altro, appassionato lettore, osservava «Gianni non ha nemmeno la fortuna del cronista Stendhal, che descrisse la battaglia di Waterloo vent’anni dopo che era terminata». Simile osservazione ci mise di buonumore, soprattutto mi permise di rendermi conto che avevo sì sbagliato. PERCHÉ, dopo le magnifiche prime partite di Federer, mi ero spinto a scrivere che avrebbe vinto il torneo. Ammirato del quarto turno contro Nishikori, e della semi con Wawrinka, ero entusiasta di Federer mentre Nadal mi lasciava qualche dubbio, a causa di una pur eccellente regolarità che tuttavia si confondeva spesso con un’aggressività ritardata. Il 6-3 del quarto set, e il vantaggio per 3 games a 1 di Rafa nel quinto di ieri, mi suggerivano che, una volta di più, mi ero sbagliato. Andavo pensando alla giustificazione del mio sbaglio, non solo con la sottovalutazione di un Nadal risanato, ma con l’apparente decisione di Roger di non abbandonare mai la linea di fondo, trovandosi così obbligato a colpire tutti i suoi colpi, e soprattutto il rovescio, con controbalzi che divenivano spesso mezze-volate dal fondo. Rivedo, a questo punto, i miei foglietti spesso imprecisi, rileggo il break in favore di Rafa, nel primo game del quinto, e la conferma di Nadal per il 3 a 1, con una noticina, su una palla break di Roger, “cross di rovescio Rafa, Roger non corre più”. Era proprio di lì che avrei iniziato a sbagliarmi. Federer risaliva 2-3 utilizzando quel che chiamo, come lo battezzò Jack Kramer, serve and forehand. Breccò a sua volta nel sesto game dopo essere sfuggito a due palle di Nadal per il 4 a 2, andò in testa per 4 a 3, infine completò il suo affannosissimo capolavoro con un nuovo break alla quinta palla utile, mentre anche i più cinici tra gli spettatori si alzavano in piedi, le braccia al cielo. Infine riuscì a salvarsi 15-40 quando ormai il match pareva una rissa tra due pugili entrambi groggy, con due punti in cui mi parve che il Falco, l’invenzione di Mr Hawke, assumesse aspetti divini, simile a quelli della celeste colomba. Quando simile soprendente vicenda ebbe fine, sarebbero seguite molte parole insolite, nella loro commovente civiltà, sui campi sportivi. Federer avrebbe affermato, sinceramente, che in una vicenda come quella odierna gli «sarebbe parso equo anche un pareggio». E Nadal avrebbe risposto che ((Roger ha meritato un po’ più di me di vincere». Entrambi non parevano aver dimenticato gli incidenti in seguito ai quali erano stati costretti quali convalescenti all’inaugurazione dell’Accademia di Nadal, inaugurazione che mi aveva spinto a pensare che difficilmente li avrei rivisti in campo, e ancor più difficilmente in una finale di cinque set. Ma certo, più importante di quanto scrivo mi è parsa una nuova dichiarazione di Federer, ascoltata grazie al telefono, dalla lontana Australia. «Mi spiace non ci fosse più a vedermi oggi Peter Carter, il mio primo allenatore». E vorrei ricordare che l’australiano Carter, morto anzitempo, fu il primo maestro di Roger, quando ancora gli era difficilissimo giocare un rovescio, bambino, al Centro di Macolin. Per meglio spiegare al paziente lettore quanto non sono riuscito io stesso a chiarire, cito ancora: «Quel che ci siamo detti, con Ivan Ljubicic e Severin Luthi, è stato: «Non pensare a Rafa. Pensa solo a colpire la palla, non occuparti del tuo avversario. Gioca libero, come se il tuo avversario non esistesse». Una frase inattesa, che forse spiega meglio di qualsiasi considerazione tecnica quanto è avvenuto nell’ultimo set. Riguardo a Nadal, non si può certo dirlo contento per il risultato finale, ma lo è al contrario «per essere di nuovo eguale a me stesso, anche se non ho vinto mi sono ritrovato. Soltanto con un dolorino alla schiena. Ma non grave. La cosa importante è congratulare Roger, e tornare a casa con una sensazione positiva». Non mi è accaduto spesso di vedere entrambi gli avversari sollevati da preoccupazioni esistenziali, e entrambi soddisfatti di un match. Un match, se non proprio storico, molto insolito.
Re: Clerici...
Nella mia qualità di modesto” scriba specializzato nel tennis, ho subito, dopo l’ultima palla vincente di San Federer, ben otto interviste che mi hanno indotto a immaginare, nei sogni notturni, una pratica di canonizzazione, smentita, al risveglio, da una telefonata in Vaticano, all’ufficio competente, che mi ha escluso, nella persona di un prete tennista, che anche il Pontefice si stesse occupando della vicenda. Pur non potendo dimenticare, tra i miei generosi intervistatori, il fascino di Lia Capizzi di Sky, la competenza melbourniana di Sandro Bertellotti, preferisco riferirmi a Guido Fiorito, del Giornale di Sicilia, che compi un viaggio a Melbourne per ammirare i busti dei vincitori fusi in bronzo nel viale che conduce alla Rod Laver Arena. «Cosa farà Federer adesso?» mi ha domandato Guido. E, domanda alla quale sono più sicuro poter rispondere: «Diverrà un esempio per i tennisti del futuro?». È spiacevole accennare al denaro, insieme al futuro di un modello di umanità, quale si è ieri dimostrato Roger, ma non posso dimenticare, pur senza conoscerli nei dettagli, i contratti stipulati dall’agente americano del tennista, Tony Godsick, dopo che la moglie Mirka, pur aiutata da un gruppo di baby sitter, ha felicemente abbandonato le sue mansioni di semi-agentessa. La réclame televisiva del famoso orologio svizzero, che ci è stata proposta mille volte in televisione, è già moltiplicata da venti contratti e, dopo la vicenda di domenica, lo sarà di altri cinquanta. La nobile frase, certo sincera, di Roger «spero di esser qui l’anno prossimo» va dunque interpretata, oltre a quanto potrebbe umanamente accadere, nel senso di quanto commercialmente accadrà. Al di là di questo, chiedermi se Roger sarà in grado, a 37 anni che verranno, di mostrarci quanto abbiamo ammirato, spesso increduli ieri, meriterebbe una risposta di uno specialista esperto in medicina sportiva, come il dottor Par-ra, in arte Dottor Laser. Abbiamo sentito attribuire all’amico Ljubicic il merito dello spostamento in avanti di Roger, che non solo gli ha consentito di guadagnare campo, ma l’ha spinto al rovescio di controbalzo, con incredibile anticipo e guadagno di terreno. Sarà possibile far di più, ridurre un dialogo in un lampeggiante haiku tennistico? O basteranno gli esempi di chi, nel passato, riusci a protrarre lo sport oltre le età normalmente consentite, come Borotra, Cachet, Tilden e Rosewall? Auguriamocene, e auguriamolo a Roger. Per quanta ci ha consentito di vedere domenica, per l’umana gratitudine che ispira la bellezza.